Giappone, età feudale. Yamauba è divenuta mamma di uno splendido bambino. Il marito, stanco di quella donna che ormai ha trovato nel figlio il fulcro dell’esistenza, escogita con sua madre un piano per liberarsene: spingerla al suicidio, facendole credere di aver avvelenato il piccolo con il proprio latte. Così avviene e Yamauba, additata come strega e aggredita dagli abitanti del villaggio, è costretta a rifugiarsi in una caverna sui vicini monti. Convinta di aver ucciso il figlio decide di lasciarsi morire ma, per volere degli Dei, Yamauba sopravvive scivolando nella follia. Tra foreste cupe e distese innevate, la sua unica compagnia saranno gli Yōkai: spiriti crudeli e pericolosi, votati all’inganno. Guidata da uno di essi, Yamauba cederà ai peggiori istinti, nutrendosi di carne umana e accettando di perdere l’anima.
Nato dalla prolifica penna di Emanuela A. Imineo, Il vuoto di Yamauba si presenta come il retelling di una delle leggende giapponesi più conosciute, quello che ha per protagonista la figura di Yamauba: anziana strega terrificante che divora carne umana ma anche donna che ha allevato l’eroe guerriero Kintaro.
Cosa posso dire, innanzitutto non aspettatevi un romanzo dai tratti dolceamari, proprio no: il dolce non è che un debole ricordo sovrastato dal dolore, dal tormento e dalla pazzia in cui cade, rimanendone completamente avvinghiata, la nostra protagonista.
Siamo nel Giappone feudale e Yamauba possiede tutto ciò che ha sempre voluto: un marito a cui essere devota e, soprattutto, un figlio a cui donare tutto l’amore di cui è capace. Tuttavia la sua felicità ha vita breve e un piano terribile, ordito ai suoi danni, la porterà ad essere odiata, ripudiata ed esiliata; complice una boccetta di “veleno” in grado di conferire una morte apparente (un po’ come quella shakespeariana che Frate Lorenzo dona a Giulietta, per capirsi), il marito fa credere alla donna di aver causato, nutrendolo col proprio latte, la morte del figlio. E’ da questo punto, praticamente dopo un paio di pagine, che inizia l’agonia della protagonista e, pian piano, la sua metamorfosi nella figura leggendaria della strega cannibale.
Un vortice di dolore capace di avvolgere il lettore, tormentarlo man mano che la lettura prosegue e gettarlo, in compagnia di Yamauba, nel baratro della follia. Un tratto che apprezzo e amo dello stile di Emanuela è che, anche grazie al suo essere diretta – per quanto brutale, ogni sfumatura della personalità di un personaggio è approfondita ed esaltata al massimo affinché chi legge sia capace di catturarne l’essenza. Leggendo riuscivo a sentire ogni sentimento provato dalla protagonista, dalle vittime e, da esterna, una rabbia verso quel pezzo di.. ok, avete capito.. del marito. Vi giuro che sarei volentieri entrata nel romanzo per usarlo come sacco da boxe.. ma sto divagando.
Scrivere del Giappone non è semplice, complice la distanza culturale e le innumerevoli figure mitologiche e folcloristiche, ma l'autrice è riuscita a rendere - grazie ad uno studio a monte - davvero in maniera molto genuina un'epoca a dir poco affascinante. Non me la sento di scendere troppo nei particolari della storia, perché va letta e - passatemi il termine - vissuta da lettore, ma posso dirvi che non è adatta a chiunque. "Quando guardi a lungo nell'abisso, l'abisso ti guarda dentro" credo non ci sia citazione più adatta a racchiudere ciò che riesce a suscitare questo romanzo, o almeno che ha suscitato in me. Una lettura, per giungere al termine, che rifarei nonostante il dolore capace di trasmettere in più di una scena.